Smart working

Smart working: il contributo per le spese sostenute dal lavoratore è su base volontaria

Riconoscere ai dipendenti in smart working un ristoro per le maggiori spese sostenute per internet, utenze casalinghe, apposite dotazioni e complementi d’arredo? Non è obbligatorio.

Il grande ricorso al lavoro agile durante la pandemia ha sollecitato lavoratori e sindacato a sollevare il tema del riconoscimento ai dipendenti in smart working di un ristoro adeguato alle spese sostenute. La legge attualmente non prevede, in via generale, alcuna forma di rimborso a favore del lavoratore agile per gli eventuali maggiori costi personali connessi alla prestazione da remoto o per la predisposizione di una postazione di lavoro.

Il motivo? È presto spiegato: l’adesione alla modalità agile di lavoro è volontaria e soprattutto che la scelta del luogo da cui svolgere la prestazione è, salva diversa disposizione contrattuale, rimessa alla libera scelta del lavoratore, il quale, a differenza che nel caso del telelavoro, esegue la prestazione lavorativa senza una postazione fissa.

Accordi collettivi: il rimborso che non ti aspetti

Tuttavia, anche per venire incontro alle esigenze di chi, nel periodo pandemico, è stato “forzatamente” collocato in smart working, alcuni accordi collettivi aziendali hanno previsto forme di contributi economici finalizzati a coprire i costi derivanti dalle utenze e dalla connettività ovvero dalla necessità di acquisto di particolare strumentazione (monitor, sedie ergonomiche, ecc.).

Ferma l’inesistenza di un obbligo giuridico, si tratta di previsioni rimesse alla libera contrattazione delle parti, nell’ambito della quale – soprattutto nell’ottica di un superamento della fase emergenziale che stiamo vivendo e della conseguente implementazione, a livello aziendale, di politiche “stabili” di smart working che ne valorizzino la vera natura e le peculiari caratteristiche – potrebbe essere ragionevole tenere in considerazione anche gli indubbi vantaggi di cui i dipendenti in smart working possono beneficiare, come, ad esempio, i possibili risparmi, oltre che in termini monetari, considerando l’eventuale riduzione dei costi di trasporto per il tragitto casa-lavoro, anche in termini di tempo e di una miglior conciliazione vita-lavoro.

La regola vale anche per il buono pasto?

Per quel che riguarda invece la controversa questione del buono pasto, sinora l’unica sentenza che se ne è occupata ha negato il diritto del lavoratore ad ottenerlo nelle giornate di lavoro da remoto (Tribunale di Venezia, decreto 8 luglio 2020 numero 3463). La questione era stata sollevata (anche) con riferimento al principio, affermato dalla Legge 81/2017, istitutiva dello smart working, secondo cui il lavoratore che opera in modalità agile ha diritto ad un trattamento economico e normativo non inferiore a quello del lavoratore che svolge la medesima mansione esclusivamente in azienda (articolo 20, primo comma). 

Il Tribunale di Venezia, richiamando una pronuncia della Cassazione che ha escluso la natura di elemento della retribuzione del buono pasto, definito una «agevolazione di carattere assistenziale collegata al rapporto di lavoro da un nesso meramente occasionale» (Cassazione 29 novembre 2019 numero 31137), ha escluso che il buono pasto potesse rientrare nella nozione di trattamento economico e normativo.


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