Gli indumenti di lavoro e la loro corretta qualificazione giuridica rappresentano uno snodo cruciale nella gestione della sicurezza aziendale, spesso oggetto di contenzioso e di interpretazioni complesse. Il quadro normativo di riferimento è delineato dal Dlgs 81/2008, che all’articolo 74 fornisce la definizione di Dispositivo di Protezione Individuale (DPI), escludendo esplicitamente dalla categoria “gli indumenti di lavoro ordinari e le uniformi non specificamente destinati a proteggere la sicurezza e la salute del lavoratore”.
Tuttavia, il confine tra un semplice capo di vestiario utilizzato per preservare gli abiti civili dall’usura o per fini di immagine aziendale (come le divise o le livree) e un vero e proprio dispositivo di protezione non è sempre netto. La discriminante fondamentale risiede nella funzione assolta dal capo di abbigliamento: se questo è finalizzato a proteggere il lavoratore da un rischio per la sua salute o sicurezza, anche se minimo, rientra a pieno titolo nella disciplina dei DPI. L’articolo 2087 del Codice Civile, inoltre, impone al datore di lavoro di adottare tutte le misure necessarie a tutelare l’integrità fisica del prestatore d’opera, principio che orienta la lettura delle norme tecniche verso la massima tutela possibile.
Classificazione degli indumenti di lavoro e dispositivi
La distinzione tra semplici indumenti di lavoro e dispositivi di protezione individuale richiede un’analisi tecnica approfondita dei fattori di rischio presenti nel ciclo produttivo. Un abito da lavoro diventa un DPI quando è progettato e fornito per prevenire lesioni o danni alla salute. Non si tratta solo di protezioni contro rischi evidenti, come il calore, il fuoco (abbigliamento ignifugo) o gli agenti chimici, ma anche di protezione contro rischi biologici o igienico-sanitari. La giurisprudenza di legittimità ha consolidato l’orientamento secondo cui anche la divisa che protegge il lavoratore dal contatto con sostanze imbrattanti, potenzialmente nocive o portatrici di agenti patogeni, deve essere considerata un DPI.
In questo scenario, la funzione di “barriera” tra l’ambiente esterno e la cute del lavoratore eleva il semplice camice o la tuta al rango di dispositivo di protezione. Al contrario, se l’uso della divisa risponde esclusivamente a esigenze di decoro, appartenenza aziendale o mera pulizia, senza alcuna funzione protettiva rispetto a rischi specifici valutati nel documento di valutazione dei rischi (DVR), essa rimane un mero elemento di corredo, non soggetto alle stringenti regole del Titolo III del Dlgs 81/2008.
Obblighi di manutenzione, lavaggio e responsabilità
Le implicazioni operative derivanti da questa classificazione sono rilevanti, in particolare per quanto concerne la gestione della manutenzione e dell’igiene dei capi.
Se l’indumento è classificato come DPI, l’articolo 77 del Dlgs 81/2008 pone in capo al datore di lavoro l’obbligo indelegabile di mantenerlo in stato di efficienza e di assicurarne le condizioni igieniche.
Questo significa che il lavaggio degli indumenti protettivi non può essere demandato al lavoratore (ad esempio, con un rimborso spese in busta paga per il lavaggio domestico), poiché ciò non garantirebbe la rimozione certificata degli agenti contaminanti e potrebbe anzi esporre l’ambiente familiare del dipendente a rischi residui.
L’azienda deve quindi farsi carico direttamente del servizio di lavanderia industriale o dotarsi di procedure interne che assicurino il ripristino delle caratteristiche protettive del capo (si pensi alla rifrazione delle bande ad alta visibilità che può degradare con lavaggi errati). Una corretta gestione prevede che il datore di lavoro stabilisca procedure chiare per il ritiro dell’usato e la riconsegna del pulito, evitando la commistione tra abiti civili e da lavoro. Il mancato rispetto di questi obblighi espone l’azienda a sanzioni amministrative e penali, oltre a possibili richieste di risarcimento danni per l’esposizione a rischi non adeguatamente mitigati.


