Definizione operativa delle terre e rocce da scavo

Definizione operativa degli scavi in edilizia

Le terre e rocce da scavo sono materiali naturali asportati durante realizzazioni edilizie o infrastrutturali che coinvolgono il suolo o la roccia. In ambito ambientale, rientrano nella categoria dei rifiuti speciali non pericolosi e sono identificate con il codice CER 17 05 04, a condizione che non contengano sostanze pericolose. La normativa di riferimento è rappresentata dalla parte IV del decreto legislativo 152/2006, che disciplina il loro status come rifiuti o sottoprodotti, a seconda delle modalità di gestione e destinazione.

Requisiti per la qualificazione e normative sugli scavi

Secondo il DPR 120/2017, in vigore dal 22 agosto 2017, le terre e rocce da scavo possono essere qualificate come sottoprodotti ai sensi dell’articolo 184‑bis del DLgs 152/2006 se rispettano determinati requisiti: devono essere sicure dal punto di vista ambientale, destinati a utilizzo in siti predefiniti o in cicli produttivi specifici, e accompagnati da una documentazione tecnico‑analitica che attesta la non contaminazione in base alle concentrazioni soglia di contaminazione (CSC) previste dalla normativa. Il materiale prodotto in grandi cantieri (oltre 6.000 m³) rientra nel capo II del DPR, mentre per cantieri di piccole dimensioni si applicano procedure semplificate, quali la dichiarazione di utilizzo sostitutiva del piano di utilizzo previsto per progetti più vasti.

Gestione temporanea e condizioni operative

Il deposito temporaneo di terre e rocce da scavo qualificate come rifiuti (codici CER 17 05 04 o 17 05 03*) è disciplinato dal DPR 120/2017. Il materiale può essere stoccato in cantiere per un periodo non superiore a un anno, con obbligo di smaltimento o recupero trimestrale oppure al raggiungimento di 4.000 m³ complessivi (di cui massimo 800 m³ per materiale pericoloso). In alternativa è consentito il conferimento diretto nel sito di destinazione, purché rispettate le norme di caratterizzazione ambientale e i limiti di contaminazione.

Caratterizzazione ambientale: campionamento e test di cessione

Per distinguere tra rifiuto e sottoprodotto è necessaria una caratterizzazione chimico‑fisica del materiale escavato, secondo le modalità previste dall’allegato 4 del DPR 120/2017. I campioni raccolti devono essere rappresentativi del volume escavato e analizzati tramite test di cessione conformi alle norme UNI EN 12457‑2 per materiali granulari e UNI EN 10802 per materiali pastosi o fangosi. Tali test verificano eventuali contaminazioni e confermano il rispetto della soglia ambientale richiesta per il riutilizzo in regime di sottoprodotti.

Implicazioni operative per le imprese e obblighi gestionali

Le imprese devono valutare in fase preliminare se le terre escavate possono essere utilizzate come sottoprodotti. In caso affermativo, occorre predisporre un piano preliminare di utilizzo, dettagliando sito o ciclo produttivo di destinazione, condizioni di idoneità ambientale e tracciabilità del materiale. In assenza di tali requisiti, il materiale deve essere gestito come rifiuto speciale, con obblighi riguardanti formulario, registri di carico e scarico, trasporto presso impianti autorizzati, e rispetto delle tempistiche di deposito temporaneo. La responsabilità grava sul produttore o detentore, che deve garantire la conformità normativa e può essere sanzionato in caso di scorretto uso o dichiarazioni non veritiere.

Benefici, rischi e opportunità nel riutilizzo in cantiere

Il corretto impiego delle terre e rocce da scavo come sottoprodotti comporta significativi vantaggi ambientali ed economici: riduce la produzione di rifiuti da smaltire, limita l’estrazione di materie prime, e facilita la realizzazione di riempimenti o ripristini ambientali. Tuttavia, tale opzione richiede rigore procedurale: ogni cantone deve essere accompagnato da analisi ambientali certificate, procedure di caratterizzazione, e monitoraggi costanti. L’uso improprio può esporre l’azienda a rischi di contaminazione, responsabilità legali e sanzioni amministrative. Solo mediante un approccio preventivo e trasparente è possibile trasformare questo materiale in una risorsa sostenibile.

Ponteggi a telai prefabbricati: struttura, normativa e applicazioni

Ponteggi a telai prefabbricati: struttura, normativa e applicazioni

Il ponteggio a telai prefabbricati è un sistema provvisionale costituito da elementi metallici modulari, progettato per lavori in quota su superfici edilizie piane e lineari. Questo tipo di ponteggio è regolato dal DLgs 81/2008, che impone l’obbligo di autorizzazione ministeriale per i ponteggi metallici fissi (articolo 131), e prevede l’elaborazione del Piano di Montaggio, Uso e Smontaggio (Pi.M.U.S.) da parte del datore di lavoro. I ponteggi prefabbricati sono impiegati principalmente nei lavori di manutenzione, ristrutturazione e rifacimento delle facciate, offrendo una soluzione efficiente e sicura nei contesti in cui le superfici di lavoro presentano una geometria regolare.

Vantaggi operativi: semplicità, velocità e convenienza economica

I principali vantaggi dei ponteggi a telai prefabbricati risiedono nella semplicità di montaggio, nella rapidità di installazione e nei costi contenuti. Grazie alla modularità degli elementi – telai laterali, correnti, diagonali e tavole – è possibile allestire in poco tempo strutture lineari, con un notevole risparmio di manodopera. La standardizzazione dei componenti consente inoltre una maggiore sicurezza nella fase di montaggio, riducendo la possibilità di errori. 

Questo tipo di ponteggio è particolarmente adatto per interventi su edifici di media altezza, dove la linearità delle superfici consente di sfruttare appieno la logica modulare del sistema. La leggerezza dei materiali facilita il trasporto e la movimentazione in cantiere, con impatto positivo sui tempi di lavorazione e sull’organizzazione logistica.

Caratteristiche tecniche: varianti e limitazioni strutturali

I telai possono essere realizzati in versione “ad H” o “a portale”, con attacchi a perno o a boccola, in base alle esigenze specifiche del cantiere. Le dimensioni standard dei moduli permettono una progettazione più agevole e una pianificazione dettagliata delle operazioni. Tuttavia, uno dei limiti principali del ponteggio prefabbricato è la minore adattabilità alle superfici irregolari o complesse, come edifici con aggetti, curvature o dislivelli. In tali situazioni, può essere necessario ricorrere a sistemi più flessibili, come i ponteggi a tubo e giunto o quelli multidirezionali. I ponteggi prefabbricati, inoltre, richiedono un attento rispetto dei criteri di ancoraggio, stabilità e resistenza, con controlli periodici sullo stato di conservazione degli elementi.

Obblighi normativi e requisiti di sicurezza per le imprese

L’utilizzo dei ponteggi prefabbricati impone alle imprese l’osservanza di precisi obblighi documentali e tecnici. Il DLgs 81/2008 stabilisce che ogni struttura debba essere accompagnata da autorizzazione ministeriale e da apposita documentazione tecnica. Il Pi.M.U.S., obbligatorio per ogni cantiere, deve indicare nel dettaglio le modalità operative, le sequenze di montaggio e smontaggio, le misure di sicurezza da adottare e le figure coinvolte.

È inoltre necessario garantire che tutti gli operatori addetti al montaggio siano formati secondo quanto previsto dagli articoli 136 e 37 del Testo Unico, con aggiornamenti periodici. Dal punto di vista tecnico, i ponteggi devono essere conformi alle norme europee EN 12810 e EN 12811, che ne regolano le caratteristiche strutturali e funzionali. La nuova norma UNI 11927:2023 introduce inoltre requisiti prestazionali più stringenti per la protezione dei bordi e la prevenzione della caduta di materiali dall’alto.

Applicazioni nei cantieri e indicazioni operative

Il ponteggio a telai prefabbricati rappresenta una soluzione ottimale per cantieri in cui le lavorazioni si concentrano su facciate lineari, come condomìni, scuole, uffici e stabilimenti industriali. Le imprese possono trarre vantaggio da una gestione semplificata delle fasi di allestimento e smobilitazione, riducendo i tempi morti e aumentando la produttività. Tuttavia, la corretta progettazione e verifica della struttura resta un requisito imprescindibile: occorre garantire ancoraggi stabili ogni 20-25 m², controllare la verticalità dei montanti, verificare la tenuta delle connessioni e sostituire eventuali elementi danneggiati.

La sicurezza sul lavoro passa anche dalla corretta manutenzione del ponteggio, che deve essere ispezionato regolarmente per evitare cedimenti o incidenti. In presenza di condizioni non standard, come vento forte o superfici inclinate, devono essere predisposte misure aggiuntive, compresi parapetti rinforzati e tavole fermapiede.

Otoprotettori come DPI obbligatori: definizione e riferimenti normativi

Otoprotettori come DPI obbligatori: definizione e riferimenti normativi

Gli otoprotettori rientrano nella categoria dei dispositivi di protezione individuale (DPI) di terza categoria, destinati alla protezione dell’apparato uditivo nei contesti lavorativi in cui l’esposizione al rumore non può essere eliminata alla fonte. La loro disciplina è stabilita dal Regolamento (UE) 2016/425 e dal decreto legislativo 81/2008, che all’articolo 74 ne definisce le caratteristiche e all’articolo 193 impone l’obbligo di fornitura e utilizzo.

La normativa stabilisce che i DPI devono essere marcati CE, adeguati al rischio da contenere e conformi alla norma tecnica UNI EN 352, che ne regolamenta le prestazioni acustiche, la compatibilità e il comfort. Il loro impiego è essenziale nella prevenzione dell’ipoacusia da rumore, una delle patologie professionali più diffuse nel settore industriale.

Tipologie principali di otoprotettori e criteri di scelta

Esistono diverse tipologie di otoprotettori, ognuna con caratteristiche tecniche specifiche. I più comuni sono i tappi auricolari monouso, in schiuma o silicone, semplici da utilizzare e indicati per brevi periodi di esposizione. Le cuffie antirumore, invece, garantiscono un maggiore isolamento acustico grazie alla struttura che avvolge completamente il padiglione auricolare, risultando più idonee per esposizioni prolungate e ambienti a elevata intensità sonora. Infine, vi sono gli otoprotettori su misura, realizzati tramite calco dell’orecchio, che offrono un’elevata efficacia di attenuazione e comfort, particolarmente indicati per chi deve indossarli quotidianamente.

La scelta del dispositivo più adatto deve tenere conto di diversi fattori: il livello di rumore da attenuare, la durata dell’esposizione, la necessità di comunicare o percepire segnali acustici, la compatibilità con altri DPI (come elmetti o occhiali protettivi) e le caratteristiche individuali del lavoratore.

Quando scatta l’obbligo di utilizzo degli otoprotettori

L’obbligo di utilizzo degli otoprotettori è previsto dal decreto legislativo 81/2008 in base ai valori soglia di esposizione al rumore. Secondo quanto disposto dall’articolo 193, i dispositivi devono essere messi a disposizione dei lavoratori quando si superano i valori inferiori di azione, fissati in 80 dB(A) per l’esposizione giornaliera e 135 dB(C) per il picco sonoro. L’uso diventa obbligatorio al superamento dei valori superiori di azione, rispettivamente 85 dB(A) e 137 dB(C). In questi casi, oltre alla consegna del DPI, il datore di lavoro è tenuto ad assicurarsi che l’effettivo utilizzo avvenga correttamente e che i lavoratori ricevano una formazione adeguata sul rischio specifico e sull’uso dei dispositivi. Inoltre, l’efficacia dei DPI deve essere verificata nel tempo, prevedendo manutenzione, sostituzione periodica e controlli di funzionalità.

Obblighi aziendali, formazione e prevenzione dell’ipoacusia

Le aziende hanno l’obbligo di integrare nella valutazione del rischio rumore la selezione degli otoprotettori più idonei. Devono essere adottati piani specifici per la gestione dei DPI uditivi, che includano criteri di scelta tecnica, procedure di consegna, monitoraggio dello stato d’uso, conservazione e pulizia.

Il datore di lavoro, con il supporto dell’RSPP e del medico competente, deve prevedere un percorso formativo per i lavoratori esposti, con dimostrazioni pratiche e verifica della corretta adozione dei dispositivi. In presenza di condizioni particolari, come lavoratrici in gravidanza o lavoratori con patologie uditive, è opportuno adottare dispositivi personalizzati e rivedere le misure protettive in funzione della sensibilità individuale.

Un otoprotettore scelto male o indossato in modo improprio può risultare inefficace e aumentare il rischio residuo. Una corretta applicazione delle misure previste consente invece di prevenire l’insorgenza di danni permanenti all’udito e di garantire ambienti di lavoro più sicuri e conformi alle normative.

INAIL chiarisce l’uso dei valori limite e di riferimento per le sostanze pericolose

INAIL chiarisce l’uso dei valori limite e di riferimento per le sostanze pericolose

INAIL ha pubblicato il 28 luglio 2025 un nuovo fact sheet dal titolo “Sostanze pericolose: valori limite e valori di riferimento”, con l’obiettivo di offrire una guida pratica e aggiornata all’uso corretto dei parametri normativi nella valutazione dell’esposizione agli agenti chimici.

Il documento, redatto dal Dipartimento di medicina, epidemiologia, igiene del lavoro e ambientale, richiama i fondamenti normativi contenuti nel decreto legislativo 81/2008 e nel recente decreto legislativo 135 del 4 settembre 2024, che disciplina in modo specifico le sostanze reprotossiche.

Il documento si propone di chiarire il significato tecnico e l’impiego corretto dei valori limite di esposizione professionale e dei valori di riferimento ambientale, strumenti fondamentali per la prevenzione e il controllo del rischio chimico in contesti occupazionali e non occupazionali.

Differenze concettuali e operative tra i due parametri di esposizione

Il cuore del documento INAIL è rappresentato dalla distinzione tra valori limite e valori di riferimento. I valori limite di esposizione professionale rappresentano le soglie massime di concentrazione di una sostanza pericolosa a cui i lavoratori possono essere esposti durante l’attività lavorativa, nel rispetto dei principi di igiene industriale.

Questi valori sono fondamentali per interpretare correttamente i dati ottenuti dalle misurazioni ambientali effettuate nei luoghi di lavoro e per individuare eventuali superamenti delle soglie di sicurezza. I valori di riferimento, invece, si applicano alla popolazione generale e servono a definire il livello di esposizione accettabile in contesti non lavorativi, come l’ambiente domestico o urbano.

Entrambi i parametri, se utilizzati in modo integrato, consentono di attribuire in modo più preciso l’origine dell’esposizione e individuare tempestivamente eventuali criticità nella gestione del rischio. Il documento spiega inoltre che la scelta del valore da adottare per ogni sostanza deve tener conto della classificazione di pericolo (in particolare per agenti cancerogeni, mutageni e reprotossici), della disponibilità di dati tossicologici affidabili e dell’allineamento con le indicazioni fornite da organismi scientifici e normativi internazionali.

Implicazioni per le imprese nella gestione del rischio chimico

Per le aziende, il documento rappresenta un importante strumento operativo per migliorare la qualità delle valutazioni del rischio chimico e rafforzare le misure di tutela per i lavoratori. L’invito di INAIL è quello di considerare entrambi i parametri – valore limite e valore di riferimento – all’interno dei documenti di valutazione del rischio, in particolare quando si utilizzano o si manipolano sostanze pericolose classificate come cancerogene, mutagene o tossiche per la riproduzione. La distinzione tra esposizione lavorativa e ambientale diventa così una chiave di lettura essenziale per individuare con precisione le fonti di contaminazione e definire interventi mirati.

Il documento sottolinea inoltre l’importanza di un approccio multidisciplinare, che coinvolga le figure aziendali competenti, dal datore di lavoro al responsabile del servizio di prevenzione e protezione, fino al medico competente e ai rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza. INAIL suggerisce anche l’adozione di sistemi di monitoraggio regolari e l’aggiornamento costante delle banche dati aziendali, oltre a una formazione specifica per i lavoratori esposti. L’adozione di questi criteri, se ben implementata, consente di migliorare la gestione complessiva del rischio e di prevenire situazioni di non conformità che potrebbero sfociare in sanzioni o danni alla salute.

Nuove evidenze INAIL sulle fibre sostitutive dell’amianto

Nuove evidenze INAIL sulle fibre sostitutive dell’amianto

Il divieto di utilizzo dell’amianto in Italia, sancito dalla legge 257 del 1992, ha portato alla progressiva introduzione di materiali alternativi nelle lavorazioni industriali e nei prodotti isolanti.

Tuttavia, la sostituzione dell’amianto con fibre di nuova generazione richiede un’analisi approfondita dei potenziali effetti sulla salute dei lavoratori esposti. A tal fine, INAIL ha pubblicato nel maggio 2025 un nuovo fact sheet a cura del Dipartimento di medicina, epidemiologia, igiene del lavoro e ambientale, con l’obiettivo di fornire un quadro aggiornato sulle fibre sostitutive dell’amianto, sulle loro caratteristiche fisico-chimiche e sui risultati di recenti studi sperimentali. Il documento fa riferimento, oltre alla legge 257/1992, anche al Regolamento (CE) n. 1272/2008 sulla classificazione, etichettatura ed imballaggio delle sostanze pericolose (CLP), con particolare attenzione alle Note Q e R dell’Allegato VI.

Fibre artificiali e policristalline sotto la lente: classificazione e rischi

Il documento INAIL analizza due principali famiglie di materiali sostitutivi: le fibre artificiali vetrose (FAV) e le fibre policristalline (PCW). Le FAV includono diverse sotto-categorie tra cui le fibre AES (Alkaline Earth Silicate) e le HT (High Temperature), largamente utilizzate in edilizia, industria manifatturiera, impianti industriali e produzione di materiali compositi. Queste fibre presentano una elevata biosolubilità, ovvero la capacità di dissolversi più rapidamente nei fluidi biologici, il che ne riduce la biopersistenza nei tessuti polmonari. La normativa europea prevede che le fibre con contenuto di ossidi alcalino-terrosi superiore al 18% possano beneficiare dell’esonero dalla classificazione come cancerogeni, secondo quanto stabilito dalla Nota Q del Regolamento CLP.

Le fibre PCW, impiegate prevalentemente per isolamento termico in condizioni estreme (oltre 1300 °C), presentano invece una maggiore biopersistenza e sono classificate come “possibilmente cancerogene per l’uomo” (Gruppo 2B IARC).

Il fact sheet riporta anche l’impiego di metodologie in vitro per valutare la tossicità di tali materiali su cellule polmonari umane, evidenziando effetti infiammatori, ossidativi e, in alcuni casi, genotossici, seppur in misura inferiore rispetto alle fibre ceramiche refrattarie.

Impatti concreti per imprese e lavoratori: obblighi e misure di prevenzione

Sebbene molte delle fibre sostitutive dell’amianto siano considerate meno pericolose, il documento sottolinea la necessità di adottare un approccio prudenziale nella loro gestione. Le imprese che utilizzano o trattano materiali contenenti FAV o PCW devono garantire un’efficace sorveglianza dell’esposizione, predisporre adeguati sistemi di ventilazione, adottare dispositivi di protezione individuale e formare adeguatamente i lavoratori sui rischi connessi. I comparti produttivi più coinvolti comprendono il settore edile, la manutenzione di impianti termici e industriali, la produzione di isolanti e l’industria chimica.

Il documento INAIL propone inoltre di integrare le pratiche di prevenzione con l’uso di biomarcatori sensibili di esposizione ed effetto, in grado di rilevare precocemente eventuali alterazioni biologiche nei soggetti esposti. Rilevante anche l’invito a rafforzare gli studi epidemiologici su popolazioni lavorative a rischio, per colmare le attuali lacune conoscitive sugli effetti a lungo termine.

Per le aziende, ciò implica la necessità di aggiornare le valutazioni del rischio, includendo analisi specifiche per le fibre sostitutive e una più attenta selezione dei materiali da impiegare nei processi produttivi. La classificazione di queste sostanze ai sensi del Regolamento CLP e la presenza di eventuali etichettature obbligatorie devono essere verificate con attenzione, soprattutto in relazione all’obbligo di informare i lavoratori e i rappresentanti per la sicurezza.

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